PALÙ DREAMING
Certo, ci vuole un bel coraggio a raccontare una gita di scialpinismo del 1960: vecchi sci, vecchi attacchi, vecchi scarponi, vecchi pantaloni alla zuava, vecchi maglioni di lana, vecchia gioventù... Un vago odore di muffa. Perché allora? Lo faccio perché ho scommesso con un amico che sarei riuscito a interessare almeno venticinque lettori di questo mio blog. Su sette posso già contare. Ne mancano ancora diciotto. Non è poco. Io ci provo.
Prologo
Aprile 1960. Due amici; due amici-rivali un po’ in tutto: amore, montagna, scialpinismo... Lui si chiama Giors. Pretende di essere più forte di me. Mah… Insomma: due ragazzi di vent’anni ciascuno.
Una valutazione delle nostre capacità scialpinistiche aveva dato questo risultato. Tecniche di discesa: 5/6. Tecniche di salita: 7. Amore per la montagna: per me 8+, per lui... non so.
Io, poco tempo prima, avevo visto un vecchio film muto, molto drammatico: Tragedia al Pizzo Palù, montagna di grandi ghiacciai nel Massiccio del Bernina. Vi si raccontava di Leni, una bella ragazza tedesca, che sfiorava la morte per assideramento. Per fortuna, all’ultimo minuto arrivavano in soccorso dei giovani montanari che la barellavano nel Rifugio Diavolezza, la coricavano sul tavolo, la spogliavano e la massaggiavano a morte per riportarla alla vita.
Era troppo per me: me ne ero innamorato. E anche del Pizzo Palù. Volevo scalarlo, trovare una ragazzina mezzo assiderata sul ghiacciaio, salvarla… Come fare?
Un giorno, per caso, a Mondovì avevo sentito qualcuno parlare del Colle Palù. «Che hai detto? Ma dov’è?»«Nel massiccio del Marguareis»Discussioni con gli anziani del CAI, consultazioni di “guide” con copertina telata. Sì, c’era. Dovevo assolutamente andarci.
Avvicinamento
Partiamo, come sempre, la sera sul tardi.
Era un vezzo. Ci piaceva arrivare al Garelli – quello vecchio, a botte – in piena notte, per impressionare gli eventuali dormienti. Durante la salita, se la nottata era chiara, il punto di riferimento altimetrico era sempre la cima della Mirauda, dall’altra parte della Valle Pesio. Bisognava salire alti come lei. Più tu salivi, più lei scendeva. Ma ce ne voleva.
È una serata lunata e stellata. La Mirauda brilla contro il cielo nero del fondovalle. La neve è dura e granulosa. Gli sci vanno su da soli.La strada del Saut, il bosco, il Gias Sottano, svolta a sinistra su per “la valanga”, arrivo al Gias della Vipera. La Mirauda è già scesa di due terzi.La neve è di un bianco profondo; il cielo è da vertigini; la luna è da paura.
Avanti: il meglio sta per arrivare. Il Marguareis non si vede ancora, ma tra poco si staglierà in tutta la sua imponenza, talmente bello da togliere il respiro. Ci siamo separati per goderci meglio la salita: uno su a sinistra, uno su a destra. Chissà che pensieri! Una specie di ebbrezza.
Perdo subito di vista Giors e ne approfitto per dare uno strappo. Forse stavolta lo mollo... Vado su che sembro attratto dalla luna. L’unico rumore è quello degli sci che battono una crosta di neve che sembra fatta di sale grosso, rappreso. La meta è il crinale, alto, lassù.
Uscita sul crinale.Adesso si dovrebbe dire: «Wow!»
Di colpo, mi trovo faccia a faccia con sua maestà il Marguareis: fantastico, di un bianco e nero perfetto. Una foto da cento miliardi di pixel come solo il cervello può scattare. Una sosta, diversi respiri profondi, occhi che si sgranano per accogliere tutta l’immagine, diversi “whow! whow! whow!” silenziosi, ma non è la bocca, è la mente che li pronuncia, in una lingua tutta sua. Su dunque verso il rifugio che si avvicina a vista d’occhio. Sembro un cane da caccia che ha fiutato la preda. La preda è dappertutto, in basso, in alto, è bianca, è nera. Sempre brillante. Non ho più peso, mi sembra di volare.
Arrivo al rifugio semisepolto sotto cumuli di neve. Cerco nei paraggi un bel materasso di neve dura come il marmo, ben posizionato, e mi corico, zaino sotto la testa. Immobile.Il cielo mi entra negli occhi. O sono io che sto salendo verso il cosmo? Ecco perché si parla di sostanze “stupefacenti”: forse senza accorgermene me ne sono fatto un tiro. Ma non voglio volarmene via, voglio godermele qui, su questa Terra, le stupefacenti meraviglie del cosmo.Nel gran silenzio, faccia volta al cielo, accendo la radiolina che ho portato con me, giro un bottone, ecco: un suono, un unico suono in tutto l’universo, un suono di una purezza sublime. È un canto, una voce di donna. Sarà la giovane congelata sul ghiacciaio Palù che canta alla vita che ha ripreso a scorrere nelle sue vene?
Avvolto da un’insopportabile bellezza minerale, rimango a terra grazie a quel filo di dolcezza antropica che mi scalda il cuore e gli ormoni. Un momento di estasi perfetta. Se ne potrebbe morire.
Lo sto riprovando in questo momento, mezzo secolo dopo. È un po’ smorzato, ma sono cose che non si dimenticano.
Dopo un tempo imprecisato arriva Giors, a piedi, sci in spalla, incazzato nero contro le pelli di foca incollate che si staccano. Faceva talmente freddo che né la Rode né la Skare si lasciavano tirare. Molla dei sacramenti che strappano anche le stelle dal cielo. È stata dura liberare la porta per entrare nel rifugio nero e freddo. Nessun dormiente da impressionare. Alla fine, la notte diventa tutta nera in una mezza botte opaca e ostile.
Primo giorno
Alba rosata, tempo splendido, un bel freddo e neve come la sera prima: il famoso “sale grosso” che in discesa ti permette di fare quello che vuoi. Gli sci continuano ad andare su da soli: purtroppo loro credono di seguire il percorso della gara dei Tre Rifugi (che hanno nel sangue), ma a un certo punto, dopo Porta Sestrera, sono costretti a girare a destra per affrontare le vastità della Colla del Pàs già toccate da un freddo solicello. Ecco fatto, siamo sul colle. Giù adesso, sempre con le pelli, in direzione di Carnino, dove i monregalesi non vanno quasi mai. Poco dopo, a destra, a naso, a fiuto, ecco un imbuto non molto grande, abbastanza ripido, che ha tutta l’aria di portare all’agognato Colle Palù.
A quei tempi i “coltelli” non erano ancora nati, e nemmeno i ramponcini da scialpinismo. C’erano, sì, i ramponi, ma quelli erano solo per il Lourousa, d’estate. Peggio ancora: gli scarponi erano di morbido cuoio e il bordo del Vibram era parecchio arrotondato. Sul dritto, e con neve dura, l’unica soluzione era andare su con le pelli, di forza.
Una bella ravanata di quadricipiti, ma soprattutto di pettorali. I bastoncini reggono degli sforzi terribili, di punta e di taglio.Ahimè: sul Colle Palù non c’è nessuna ragazzina assiderata da assistere con le modalità viste nel film. Anzi: si è alzato un sole giallo e freddo.I fantasmi della notte svaniscono rapidamente sui pendii sud del Marguareis, gibbosi e facili da salire. Inanelliamo le schiene delle diverse cime minori fino a toccare la croce di vetta.Laggiù, lontano, dietro tutte le altre montagne, si innalza, gobbo e massiccio, il Monte Bianco. Sulle nostre montagne, solo dal Marguareis si riesce a vedere il Bianco; solo dalla sua cima.
Si riparte al contrario. Se non sapessimo che con quella neve trasformata in profondità scendono bene tutti, cani e porci, ci daremmo un bel 7+; magari anche un 7/8. È già quasi mezzogiorno e la neve non ha ancora cominciato a smollare.Visto che abbiamo messo le pelli per risalire alla Colla del Pàs, vuoi non approfittarne? Vuoi toglierle proprio lì dove comincia la salita al Pian Ballaur, facile e invitante? Su per il Pian Ballaur dunque, e poi, in cima, tolte definitivamente le pelli, partenza per i mille metri di discesa verso il Rifugio Mondovì su una neve che non può essere un caso.Lassù qualcuno ci ama.
Giunti sul bordo superiore dello scivolo del Biecai, grande delusione nel non vedere le corde fisse, la traccia profonda, gli uomini del soccorso a monte, gli uomini del soccorso a valle, gli uomini del soccorso a metà discesa, termos di tè bollente di qua e di là. Insomma, quella bella festa che si vede durante la gara dei Tre Rifugi. Guardandolo dall’alto e vedendolo così scuro, esitiamo un po’, ma poi ci buttiamo giù. Dopo il primo curvone e la conseguente, lunghissima raschiata sulle lamine, abbiamo già perso venti metri di dislivello; dopo il secondo curvone siamo quasi alla base. È finita, non siamo morti e non ci siamo nemmeno sgarugnati. Se volessi darmi un po’ di arie, direi che raggiungiamo il rifugio Mondovì scodinzolando.
Ma non è vero. Scendiamo con le ultime forze, passabilmente stanchi, con il classico stile detto “dello zaino sulle spalle”, quello che risiede in tutti gli scialpinisti anche quando non hanno lo zaino. Perché ormai lo zaino ce l’hanno nel sangue.
Un po’ di bamblinamento ozioso nei dintorni del rifugio, un frugale panino, poi a nanna sui tavolati alla luce delle pile.Sulla cima del Mongioie si è formata una strana nuvola a forma di pesce.
Secondo giorno
Ai primi chiarori butto i piedi fuori dalle coperte. La giornata di ieri la sento nelle gambe. Vediamo che cosa ci aspetta oggi: prima di tutto il Mongioie, su e giù. Poi il percorso della Tre Rifugi fino a raggiungere la Cima Durand e infine giù a Norea. Un bel tiro. Se mi ascoltassi, lascerei perdere il Mongioie. Ma chissà che ne pensa Giors. Sicuramente nessuno dei due vorrà tirarsi indietro per primo. Sento che bisognerà sciropparsi il Mongioie. Accendiamo la retina bianca della lampada a gas. Facciamo colazione con tè e tanti biscotti al Plasmon. È l’ultima moda. Qualcuno ha sentenziato che quei biscotti sono il top e tutti si sono buttati sul Plasmon.
Gli sci, con le pelli già incollate, aspettano accanto alla porta di ingresso. Giors sale sul pagliericcio alto, sovrastato da una finestrella, per piegare la sua coperta.Quando mi raggiunge gli chiedo: «Hai guardato com’è il tempo fuori?», e lui: «Bél. J’è na bela lus bianca (Bello. C’è una bella luce bianca)». « Andiamo, allora» Con una spallata apriamo la porta del rifugio.
VLAM !
Sì, c’è una bela lus bianca, forse perfino troppo. Ci mettiamo qualche secondo a capire: la vista è accecante, non si possono tenere gli occhi aperti. Ma non è sole, sono fiocchetti di neve finissima che ti entrano nel collo e negli occhi. Proviamo a muovere due passi: non si vede niente. Non è neve, non è tempesta; c’è un nome: è tormenta. Siamo nel mezzo di una tormenta. Deve aver soffiato tutta la notte.
A terra, di neve soffice come un piumino d’oca, ce n’è un buon mezzo metro.Mia prima reazione, muta, di gioia: «Niente Mongioie!». Poco dopo, a bassa voce: «Non ci resta che fare il percorso della Tre Rifugi».Un lungo silenzio. Alla fine, da lontano, appare il disastro imminente.«Ma non si vede nulla! Come faremo a trovare la Colla Rossa? E anche la trovassimo, il canalone del Mondolé con tutta questa neve, te la senti di attraversarlo, tu?»Silenzio: si riflette. Restano due soluzioni: rientrare al rifugio e aspettare che smetta, o scendere tutta la Valle Ellero sotto il tiro delle valanghe.
Ovviamente, allora non c’erano i cellulari. Aspettare nel rifugio non sarebbe servito a niente perché tanto, prima o dopo, avremmo dovuto andarcene lo stesso, con più pericolo perché con molta più neve. Eravamo in trappola. C’era una sola via d’usci- ta: buttarci giù subito lungo l’arcigna Valle Ellero, dove non eravamo mai scesi e da dove non eravamo mai saliti. Un solco profondo dove si ingolfano tutte le valanghe del Cars, del Carsetto e di tutti gli altri montagnàs appollaiati all’intorno.
«Dai, veloci. Più si aspetta più diventa brutta.»«Ma tu, sai dove andare? Non si vede niente.»«Basta andare sempre in giù, da qualche parte arriveremo.»
Erano cose che si dicevano, ma erano balle. Seguire il letto del torrente era impossibile perché ogni tanto l’Ellero entrava in gole ripugnanti. Bisognava per forza passare più alto, a fianco di montagna. Ma per far quello occorreva vedere. Per fortuna c’era la gioventù e la segreta speranza di stare per affrontare un’impresa che avremmo potuto raccontare mezzo secolo dopo. E c’era soprattutto la grande saggezza popolare, di origine ancestrale, che sarebbe volata in nostro soccorso un minuto dopo. Questa:
«Va già bene che mentre nevica le valanghe non scendono!»Forti di questa “suprema saggezza ancestrale”, ci buttiamo giù. Ma giù dove? Su un cocuzzolo ci sono tanti “giù”. Comincia male.
Adesso non sto a farla lunga. Il lettore non ci metterà molto a mettersi nei nostri panni. Basta che pensi che non si vedeva niente, che quella nevina feroce frullava nell’aria portata da venti bastardi, e che quindi non si capiva se era lui, lo sciatore, che si stava muovendo o se invece era fermo e la neve che gli veniva incontro era quella portata dal vento. Ecco perché, ogni tanto, credendo di andare troppo forte, il povero sciatore disperso nella tormenta buttava il culo a terra aspettandosi un volo rovinoso. In realtà si sedeva nella neve, da fermo.
Quello mattina siamo andati avanti, cioè in giù, senza sapere dove, per delle ore. Bon, basta, lasciamo perdere. Una ravanata da dimenticare. Se si può.
Nel bel mezzo di una gola tipo l’Inferno di Dante, ci imbattiamo in un ponte, visibilmente murato. Un grido: «’L Pont Murà!», il mitico ponte murato tra Rastello e il rifugio Mondovì. Non siamo mai stati da queste parti, ma un po’ di cultura generale ce l’abbiamo. Anche la tormenta ha mollato, adesso nevica solo. Cominciamo a intravedere la strada sterrata sotto la neve. Ora sappiamo che non faremo la fine di quella là che si è fatta massaggiare da mezzo paese.
Arriviamo a Rastello come cani fradici. Pioggia mista a neve, i dannati pataràss di marzo. Quel giorno di aprile era gennaio in alto e marzo a Rastello.
A Norea andiamo a telefonare a qualcuno che venga a prenderci. A Mondovì fa brutto, ma è aprile, finalmente.
Post Scriptum
Vinto dalla curiosità ho ordinato su Amazon il dvd di quel vecchio film. Mi è arrivato ieri. Ho cominciato a guardarlo con impazienza. Lampi di memoria mi balzavano incontro da una grande lontananza. Il film era un po’ invecchiato, ma reggeva sempre. Giuro che non sono subito andato verso la fine a cercare la scena madre: quella della spoliazione e del vigoroso massaggio del corpo. È arrivata quando doveva arrivare. L’ho guardata due volte perché la prima volta credevo di aver visto male. No, avevo visto bene. Quel corpo nudo (di cui però si vedevano solo, qua e là, lampi di pelle e scorci di membra) steso sul tavolo e massaggiato con forza a pugnate di neve dai giovani montanari, non era quello della madonnina assiderata, come avevo sempre creduto, e forse anche sperato. Era quello del suo antipatico moroso, più assiderato lui di lei. La madonnina, avvolta in una coperta di morbidissima lana, se ne stava in un angolo, raggomitolata tra le braccia del custode del rifugio che la guardava con infinito amore. E gli occhi di lei guardavano, con infinito amore, gli occhi di lui.
E va bene, ho capito: mezzo secolo fa ho fatto tutto quel giro per niente. Nella tormenta della Valle Ellero ho perfino rischiato di fare la fine dell’antipatico moroso.
Adesso spero almeno di vincere la scommessa con quel mio amico.
Certo, ci vuole un bel coraggio a raccontare una gita di scialpinismo del 1960: vecchi sci, vecchi attacchi, vecchi scarponi, vecchi pantaloni alla zuava, vecchi maglioni di lana, vecchia gioventù... Un vago odore di muffa. Perché allora? Lo faccio perché ho scommesso con un amico che sarei riuscito a interessare almeno venticinque lettori di questo mio blog. Su sette posso già contare. Ne mancano ancora diciotto. Non è poco. Io ci provo.
Prologo
Una valutazione delle nostre capacità scialpinistiche aveva dato questo risultato. Tecniche di discesa: 5/6. Tecniche di salita: 7. Amore per la montagna: per me 8+, per lui... non so.
Era troppo per me: me ne ero innamorato. E anche del Pizzo Palù. Volevo scalarlo, trovare una ragazzina mezzo assiderata sul ghiacciaio, salvarla… Come fare?
Un giorno, per caso, a Mondovì avevo sentito qualcuno parlare del Colle Palù.
«Che hai detto? Ma dov’è?»
«Nel massiccio del Marguareis»
Discussioni con gli anziani del CAI, consultazioni di “guide” con copertina telata. Sì, c’era. Dovevo assolutamente andarci.
Avvicinamento
Partiamo, come sempre, la sera sul tardi.
Era un vezzo. Ci piaceva arrivare al Garelli – quello vecchio, a botte – in piena notte, per impressionare gli eventuali dormienti. Durante la salita, se la nottata era chiara, il punto di riferimento altimetrico era sempre la cima della Mirauda, dall’altra parte della Valle Pesio. Bisognava salire alti come lei. Più tu salivi, più lei scendeva. Ma ce ne voleva.
È una serata lunata e stellata. La Mirauda brilla contro il cielo nero del fondovalle. La neve è dura e granulosa. Gli sci vanno su da soli.
La strada del Saut, il bosco, il Gias Sottano, svolta a sinistra su per “la valanga”, arrivo al Gias della Vipera. La Mirauda è già scesa di due terzi.
La neve è di un bianco profondo; il cielo è da vertigini; la luna è da paura.
Avanti: il meglio sta per arrivare. Il Marguareis non si vede ancora, ma tra poco si staglierà in tutta la sua imponenza, talmente bello da togliere il respiro. Ci siamo separati per goderci meglio la salita: uno su a sinistra, uno su a destra. Chissà che pensieri! Una specie di ebbrezza.
Uscita sul crinale.
Adesso si dovrebbe dire: «Wow!»
Arrivo al rifugio semisepolto sotto cumuli di neve. Cerco nei paraggi un bel materasso di neve dura come il marmo, ben posizionato, e mi corico, zaino sotto la testa. Immobile.
Il cielo mi entra negli occhi. O sono io che sto salendo verso il cosmo? Ecco perché si parla di sostanze “stupefacenti”: forse senza accorgermene me ne sono fatto un tiro. Ma non voglio volarmene via, voglio godermele qui, su questa Terra, le stupefacenti meraviglie del cosmo.
Nel gran silenzio, faccia volta al cielo, accendo la radiolina che ho portato con me, giro un bottone, ecco: un suono, un unico suono in tutto l’universo, un suono di una purezza sublime. È un canto, una voce di donna. Sarà la giovane congelata sul ghiacciaio Palù che canta alla vita che ha ripreso a scorrere nelle sue vene?
Lo sto riprovando in questo momento, mezzo secolo dopo. È un po’ smorzato, ma sono cose che non si dimenticano.
Dopo un tempo imprecisato arriva Giors, a piedi, sci in spalla, incazzato nero contro le pelli di foca incollate che si staccano. Faceva talmente freddo che né la Rode né la Skare si lasciavano tirare. Molla dei sacramenti che strappano anche le stelle dal cielo. È stata dura liberare la porta per entrare nel rifugio nero e freddo. Nessun dormiente da impressionare. Alla fine, la notte diventa tutta nera in una mezza botte opaca e ostile.
Primo giorno
Alba rosata, tempo splendido, un bel freddo e neve come la sera prima: il famoso “sale grosso” che in discesa ti permette di fare quello che vuoi. Gli sci continuano ad andare su da soli: purtroppo loro credono di seguire il percorso della gara dei Tre Rifugi (che hanno nel sangue), ma a un certo punto, dopo Porta Sestrera, sono costretti a girare a destra per affrontare le vastità della Colla del Pàs già toccate da un freddo solicello. Ecco fatto, siamo sul colle. Giù adesso, sempre con le pelli, in direzione di Carnino, dove i monregalesi non vanno quasi mai. Poco dopo, a destra, a naso, a fiuto, ecco un imbuto non molto grande, abbastanza ripido, che ha tutta l’aria di portare all’agognato Colle Palù.
A quei tempi i “coltelli” non erano ancora nati, e nemmeno i ramponcini da scialpinismo. C’erano, sì, i ramponi, ma quelli erano solo per il Lourousa, d’estate. Peggio ancora: gli scarponi erano di morbido cuoio e il bordo del Vibram era parecchio arrotondato. Sul dritto, e con neve dura, l’unica soluzione era andare su con le pelli, di forza.
Una bella ravanata di quadricipiti, ma soprattutto di pettorali. I bastoncini reggono degli sforzi terribili, di punta e di taglio.
Ahimè: sul Colle Palù non c’è nessuna ragazzina assiderata da assistere con le modalità viste nel film. Anzi: si è alzato un sole giallo e freddo.
I fantasmi della notte svaniscono rapidamente sui pendii sud del Marguareis, gibbosi e facili da salire. Inanelliamo le schiene delle diverse cime minori fino a toccare la croce di vetta.
Laggiù, lontano, dietro tutte le altre montagne, si innalza, gobbo e massiccio, il Monte Bianco. Sulle nostre montagne, solo dal Marguareis si riesce a vedere il Bianco; solo dalla sua cima.
Si riparte al contrario. Se non sapessimo che con quella neve trasformata in profondità scendono bene tutti, cani e porci, ci daremmo un bel 7+; magari anche un 7/8. È già quasi mezzogiorno e la neve non ha ancora cominciato a smollare.
Visto che abbiamo messo le pelli per risalire alla Colla del Pàs, vuoi non approfittarne? Vuoi toglierle proprio lì dove comincia la salita al Pian Ballaur, facile e invitante? Su per il Pian Ballaur dunque, e poi, in cima, tolte definitivamente le pelli, partenza per i mille metri di discesa verso il Rifugio Mondovì su una neve che non può essere un caso.
Lassù qualcuno ci ama.
Ma non è vero. Scendiamo con le ultime forze, passabilmente stanchi, con il classico stile detto “dello zaino sulle spalle”, quello che risiede in tutti gli scialpinisti anche quando non hanno lo zaino. Perché ormai lo zaino ce l’hanno nel sangue.
Un po’ di bamblinamento ozioso nei dintorni del rifugio, un frugale panino, poi a nanna sui tavolati alla luce delle pile.
Sulla cima del Mongioie si è formata una strana nuvola a forma di pesce.
Secondo giorno
Gli sci, con le pelli già incollate, aspettano accanto alla porta di ingresso. Giors sale sul pagliericcio alto, sovrastato da una finestrella, per piegare la sua coperta.
Quando mi raggiunge gli chiedo: «Hai guardato com’è il tempo fuori?», e lui: «Bél. J’è na bela lus bianca (Bello. C’è una bella luce bianca)». « Andiamo, allora»
VLAM !
A terra, di neve soffice come un piumino d’oca, ce n’è un buon mezzo metro.
Mia prima reazione, muta, di gioia: «Niente Mongioie!». Poco dopo, a bassa voce: «Non ci resta che fare il percorso della Tre Rifugi».
Un lungo silenzio. Alla fine, da lontano, appare il disastro imminente.
«Ma non si vede nulla! Come faremo a trovare la Colla Rossa? E anche la trovassimo, il canalone del Mondolé con tutta questa neve, te la senti di attraversarlo, tu?»
Silenzio: si riflette. Restano due soluzioni: rientrare al rifugio e aspettare che smetta, o scendere tutta la Valle Ellero sotto il tiro delle valanghe.
Ovviamente, allora non c’erano i cellulari. Aspettare nel rifugio non sarebbe servito a niente perché tanto, prima o dopo, avremmo dovuto andarcene lo stesso, con più pericolo perché con molta più neve. Eravamo in trappola. C’era una sola via d’usci- ta: buttarci giù subito lungo l’arcigna Valle Ellero, dove non eravamo mai scesi e da dove non eravamo mai saliti. Un solco profondo dove si ingolfano tutte le valanghe del Cars, del Carsetto e di tutti gli altri montagnàs appollaiati all’intorno.
«Dai, veloci. Più si aspetta più diventa brutta.»
«Ma tu, sai dove andare? Non si vede niente.»
«Basta andare sempre in giù, da qualche parte arriveremo.»
Erano cose che si dicevano, ma erano balle. Seguire il letto del torrente era impossibile perché ogni tanto l’Ellero entrava in gole ripugnanti. Bisognava per forza passare più alto, a fianco di montagna. Ma per far quello occorreva vedere. Per fortuna c’era la gioventù e la segreta speranza di stare per affrontare un’impresa che avremmo potuto raccontare mezzo secolo dopo. E c’era soprattutto la grande saggezza popolare, di origine ancestrale, che sarebbe volata in nostro soccorso un minuto dopo. Questa:
«Va già bene che mentre nevica le valanghe non scendono!»
Forti di questa “suprema saggezza ancestrale”, ci buttiamo giù. Ma giù dove? Su un cocuzzolo ci sono tanti “giù”. Comincia male.
Quello mattina siamo andati avanti, cioè in giù, senza sapere dove, per delle ore. Bon, basta, lasciamo perdere. Una ravanata da dimenticare. Se si può.
Nel bel mezzo di una gola tipo l’Inferno di Dante, ci imbattiamo in un ponte, visibilmente murato. Un grido: «’L Pont Murà!», il mitico ponte murato tra Rastello e il rifugio Mondovì. Non siamo mai stati da queste parti, ma un po’ di cultura generale ce l’abbiamo. Anche la tormenta ha mollato, adesso nevica solo. Cominciamo a intravedere la strada sterrata sotto la neve. Ora sappiamo che non faremo la fine di quella là che si è fatta massaggiare da mezzo paese.
A Norea andiamo a telefonare a qualcuno che venga a prenderci. A Mondovì fa brutto, ma è aprile, finalmente.
Post Scriptum
E va bene, ho capito: mezzo secolo fa ho fatto tutto quel giro per niente. Nella tormenta della Valle Ellero ho perfino rischiato di fare la fine dell’antipatico moroso.
Adesso spero almeno di vincere la scommessa con quel mio amico.
Bello poterlo raccontare!
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