SHERPA TENZING (1969)




Luoghi: Plateau Rosa, 3480 m; Osservatorio Raggi Cosmici, 3460 m; Breithorn, 4165 m. 
Tempo: Estate 1969
Personaggi: Vitty, Nino, Silvano, Sherpa Tenzing, il Destino.

******


Erano ormai due anni che lavoravo a Bruxelles. 

In quel periodo, l’Università di Torino si era dotata di un Osservatorio Raggi Cosmici al Plateau Rosa, a 3460 metri di quota, in faccia al Cervino. Eccolo da me fotografato nella sua veste 1969: capannoni in alluminio sormontati da antenne.

Osservatorio Raggi Cosmici, Università di Torino, 1969

Nino era stato il mio migliore amico durante i nostri anni all’università, e in quel momento faceva parte del team di astrofisici che, a turno, traslocavano fin lassù per andare a caccia di raggi cosmici osservabili solo in alta quota. Un giorno, al telefono, mi dice: «Io quest’estate sono su per un bel po’ di tempo. Se ti va, puoi venire a stare 1-2 settimane nella capanna con noi. Una branda libera c’è. Io devo lavorare, tu ti fai i cazzi tuoi, e quando possiamo andiamo in montagna».

Sul Cervino c’eravamo già stati nel 1962. 
E così, nell’estate del 1969, sono andato a passare quindici giorni di vacanza con il mio amico Nino e altri colleghi d’università nel loro Osservatorio al Plateau Rosa  
 
Vitty era una bella ragazza valdostana. Era un po’ la barista, la pasionaria e l’icona totemica del Bar Ristorante al Plateau Rosa (ora Rifugio Guide del Cervino) costruito nei pressi dell’arrivo della grande funivia che, in tre balzi, arrivava da Cervinia. Giovane e libera, lavorava con gioia lassù, nell’aria rarefatta, senza rimpianti per la sua vita borghese precedente che le era diventata insopportabilmente “stretta”. Nota a tutti in zona, era particolarmente agognata da maestri di sci, guide alpine e personalità dello sport mondiale di passaggio. 
Non mi dispiaceva, anzi. Ma non ci pensavo nemmeno talmente era irraggiungibile. Intorno al suo corpo c’erano sempre due-tre guardie del corpo volontarie, costituite da giovanotti forti, atletici e abbronzatissimi. 
Arrivava la mattina con la prima funivia da Cervinia e scendeva a Cervinia la sera con l’ultima. 
 
Ogni tanto, al ristorante del Plateau c’era una cena inopinata, e così una parte dello staff rimaneva su per la notte. A tal fine, due-tre piccole camere da letto, spartane, erano state allestite al piano superiore. 
Una sera era toccato all’Osservatorio Raggi Cosmici: una cena in amicizia, offerta da Vitty in persona e riscaldata da diverse “grolle dell’amicizia”, grosse tazze di legno scolpito, con diversi beccucci, piene di vino bollente che passavano senza ritegno di bocca in bocca. Per una volta, i suoi ammiratori estatici non erano sportivi d’alto livello, ma degli intellettuali che la sapevano lunga sui muoni, sui pioni, sui neutrini e su altre particelle elementari particolarmente esotiche
Io, a quei tempi, cantavo con una bella voce di baritono e così ho fatto un po’ lo scemo imitando le ultime canzoni di Elvis Presley e di altri rockisti. I giorni seguenti, visto che avevo poco da fare, le ho girellato un po’ intorno. Avevo anche intercettato alcuni sguardi... Mah!
 
Una mattina, sul tardi, Nino mi dice: «Presto, danno qualche ora di bel tempo. Andiamo sul Breithorn». 
Partiamo subito: una corda, due piccozze e vecchi ramponi. Tanto il Breithorn è “facile”. La guida è Nino, io di crepacci non ci capivo, lui sì. Saliamo sul ghiacciaio facendo attenzione alle numerose crepe. Più noi saliamo, più il Cervino scende. Ce l’abbiamo in faccia. Uno spettacolo. 
Nubi si stanno già formando alla sua base. Anche l’aria si è fatta meno trasparente. Starà alzandosi l’umidità? Siamo quasi sui 4000.


Incrociamo due di Alessandria che rientrano: sono loro che ci hanno fotografato. Ci dicono che più su il tempo sta girando decisamente al brutto. Infatti abbiamo già i primi ghiaccioli su barba e capelli. Rispondiamo che in meno di un’ora siamo in vetta. Mentre saliamo comincia a venir giù una nevina fine che copre le nostre tracce. Anche il vento ci si mette. E la nebbia. Non si vede quasi più niente e le tracce di salita scompaiono in pochi minuti. 
Paura? Preoccupazione? Ma figurati! Siamo in cima, soli, con un palmo di neve fresca e visibilità praticamente nulla per via della nebbia fitta, ma siamo contenti perché ci siamo fatti il Breithorn. 


Silvano e Nino, Breithorn, 1969

Nino: «Giù veloci, ma facciamo attenzione ai crepacci!» Non ricordo quasi più niente; solo che abbiamo messo più tempo a scendere che a salire. A un certo punto andiamo a sbattere contro un traliccio dello skilift. È fatta! Siamo a casa! 
Entriamo nella capanna dove i colleghi fisici ci dicono: «Ma vi girano le balle? La Vitty è già venuta tre volte per vedere se eravate arrivati. Quelli di Alessandria le hanno detto che c’erano due con la barba che stavano salendo al Breithorn mentre si metteva al brutto. Era agitata, voleva mandare il soccorso alpino. Era preoccupata sul serio. Dai, andate su a tranquillizzarla… vi darà una bella strigliata…»
 
Nino rimane, io salgo su ed entro nel bar. Nella grande hall del bar stanno tutti ballando con gli scarponi da sci. Vitty, evidentemente, era nel mezzo. Quando mi vede arrivare molla tutto e mi si butta addosso. 
«Ma sei matto? Stavo morendo di paura.» 
«Non mi sembra proprio.» 
«Chiedi, chiedi, se non mi credi.» Prende uno di quegli abbronzati e gli dice: «Eccolo qui, è lui».
«Madonna, sei tu allora! Cosa gli hai fatto alla Vitty? Voleva che partissimo tutti per venirvi a cercare. Io le ho detto: “Due piemontesi che hanno fatto il Cervino non si perdono sul Breithorn”. Ma questa qui non si dava pace: “crepacci, crepacci” diceva. Comunque son contento che siate arrivati. Nessuno di noi aveva voglia di partire a cercarvi.» 
Altri tipetti mi si erano fatti intorno. Mi guardavano un po’ ironici, un po’ paraculi, un po’ sornioni. Io sempre incredulo. 
 
La sera cominciano a farmi male gli occhi. Un bruciore quasi insopportabile. Passo una notte d’inferno. Unico sollievo: uscire fuori, aprire gli occhi con le mani e fargli prendere un po’ di freddo. Ma subito dopo: sorci verdi. La mattina dopo gli occhi sono incollati. Ero cotto, bruciato dall’oftalmia dei ghiacciai. Per vederci nella nebbia, per ore ed ore mi ero sforzato a tenere gli occhi aperti e senza occhiali: vento, nevina fine e ghiacciata, raggi UV/C dei peggiori, magari anche qualche sciame di raggi cosmici. Occhi a pezzi.
Sono in branda, uno straccio pieno di neve sugli occhi. I fisici fanno le loro cose e di me se ne sbattono. Verso le dieci arriva Vitty. Una mamma, una crocerossina. Torna nel bar, mi porta un cappuccino, due croissant, me ne fa di tutti i colori, io sono senza parole. Mi dice: «Tieni duro due orette: vado a Cervinia a comprarti un collirio speciale. Io di quelle cose me ne intendo». 
Dopo un po’ ritorna. Mi mette una pasta negli occhi che non vedevano praticamente più e poi mi dice: «Silvano, per stavolta gli occhi non li perdi, ma non potevi metterti degli occhiali? Tu vai sopra i 4000, sul ghiacciaio, e non ti metti gli occhiali?» Sembrava quasi che fosse fiera di me. Poi aggiunge. «Adesso devi per forza aprirli. Solo pochi secondi, ma “devi” guardare. Ti ho portato una persona che vuole vederti e che tu devi vedere. Occasioni così, nella vita…». 

Mi chiedo chi potesse essere quella persona: Monica Vitti forse?

No, non era Monica Vitti. Era un signore piuttosto piccolino. Non l’ho riconosciuto anche perché ho subito dovuto chiudere gli occhi. 
«Allora, l’hai visto?» 
«Sì, appena, ma non so chi sia. Vitty, pietà, gli occhi mi fanno un male bestia.» 
«È Sherpa Tenzing, è venuto a trovarti.»
Il signore piccolino comincia a parlarmi a bassa voce, in inglese, mi dice che anche lui si è bruciato gli occhi diverse volte. Gentilissimo, caritatevole, il Tenzing che mi incoraggia, che mi prende le mani (o forse era lei?). Comunque ho aperto di nuovo gli occhi, ho visto una faccia asiatica, gentile, sorridente, e l’ho riconosciuto. Era lì con me, “da me”, grazie all’onnipotente Vitty. Il mitico Sherpa Tenzing, più mitico del mitico Hillary, i due primi uomini in vetta all’Everest. Un avvenimento da ricordare, che non si può dimenticare. Sherpa Tenzing, l’eroe dell’Everest, al mio capezzale per via del fatto che mi ero bruciato gli occhi sul Breithorn occidentale. Domine, non sum dignus.
 
Due giorni dopo, fine pomeriggio, stavo già meglio, ero nella capanna di lamiera quando arriva un cameriere del bar: «Sei tu Silvano? La Vitty mi ha detto di dirti che lei stasera non scende giù e che puoi andarla a trovare». 
Sguardi ambigui e occhi sfuggenti da tutte le parti. Io faccio finta di niente, gli dico che Vitty fa bene, ogni tanto, a riposarsi un po’... 
L’altro mi guarda dritto negli occhi, senza nessuna esitazione: «Guarda, non so se mi sono spiegato. Vitty sta su apposta per te. Ti aspetta per cena». Mi guarda con uno sguardo nero e appuntito: quello sguardo diceva: «La Dea Kali ti ha convocato; tu devi solo obbedire».

Eravamo soli quella sera nel grande ristorante del Plateau. Dopo cena passiamo nella sua stanzetta, al piano di sopra. Nella stanzetta accanto, Rex, l’enorme pastore tedesco di Vitty, raspa, e abbaia minacciosamente. È la sua guardia del corpo e ha sentito che il corpo della sua padrona quella sera doveva essere assistito. Con terribili unghiate sembra voler buttare giù il muro divisorio in legno che ci separa.
Eppure, nonostante il molosso, nella nostra stanza sta accadendo una cosa, per certi versi banale, per altri straordinaria. Banale perché in Italia eravamo diversi milioni a farlo. Non banale perché, quasi sicuramente, noi eravamo i più alti di tutti: 3480 metri!   
 
Quando rientro all’Osservatorio è notte fonda. Una nevina secca secca. Davanti al capannone c’è un palo di legno: lo si vede anche nella piccola foto. Quel palo non lo dimenticherò mai più. Era avvolto di una luce verdastra, spettrale, fluttuante. Ogni tanto la vedevo staccarsi dal palo e guizzare verso l’alto come una mini aurora boreale. Le antenne sul tetto erano tutte ammantate di luce (vedi PS qua sotto). Se non fosse stato per quell’iniezione di forza che mi avevano dato il Breithorn, Sherpa Tenzing e Vitty, avrei affrettato il passo. Il fulmine poteva scattare da un momento all’altro. O forse no, forse era solo un potenziale elettrostatico altissimo che si disperdeva lentamente verso il cielo.
 
Sono partito per il Belgio due giorni dopo. Ci sono subito state le telefonate, le promesse di amore eterno, la promessa di venirmi a trovare in Belgio con la sua Lancia Delta spider (voleva impressionarmi). 
Alla fine siamo rimasti uno di qua, l'altra di là. Uno a farsi la sua strada nel Plat Pays: uno dei paesi più piatti del mondo. L'altra a farsi la sua, appiccicata al Cervino, una delle montagne più belle del mondo. 
 
Così va la vita.

******

PS. 
Il ricordo di quella notte dalta quota, popolato fra laltro di luci "verdastre, spettrali, fluttuanti” mi ha ispirato, più di cinquantanni dopo, il tema di un librone che a qualcuno dei lettori potrebbe anche interessare:


MONTAGNE IMMAGINARIE  (Leggenda cosmica)

Autore : Silvano Gregoli

Editore: BBEUROPA EDIZIONI 

Genere: Romanzo (urban fantasy)

Isbn: 978-88-5494-017-8


Fausto Majorana, avvocato, è sindaco di Augusta, capoluogo di una regione pianeggiante circondata da alte montagne. Purtroppo, dopo un felice inizio di mandato, la perdita di consensi è diventata catastrofica.“Dov’è finito lo slancio della mia ultima campagna elettorale?” pensa. “Anche la Giunta mi sta abbandonando. Sono rimasto solo.”

 

Una sera, uno strano personaggio bussa alla porta del suo ufficio. L’individuo – nome d’arte Althanòr – si presenta come un mago di passaggio ad Augusta per il Festival della Magia. Nel corso di un colloquio ricco di acrobazie dialettiche e di una buona dose d’ipnosi, Althanòr convince il sindaco a firmare un contratto di tipo “faustiano”: in cambio di un secondo mandato e della prosperità di Augusta, il sindaco darà ad Althanòr non la sua anima, ma La Becca, gigantesca montagna di granito che incombe nei paraggi.

 

Fausto Majorana prende il diversivo alla leggera: «Vuole La Becca? Un mucchio di sassi? Se la prenda! Chi sono io per dargliela? Chi sono io per non dargliela? Mi fa ridere, deve essere un matto». 

 

E firma il contratto. 

 

 


 





 
 
 








Commenti

  1. Ci sono tutti gli ingredienti del miglior Gregoli in questo racconto: la montagna, la fisica, la donna e la giovinezza – soprattutto la giovinezza, che il ricordo trasfigura in mito e la scrittura sottrae all’oblio. Una scrittura giovane e fresca, mai banale, che coglie l’essenziale e va dritto al punto: al cuore delle cose, al cuore del lettore.

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  2. C'ero stata anch'io nella capanna dei fisici a Plateau Rosa. Un posto magico con un fantastico paesaggio di neve e montagne. Era stato Nino a portarmi lassù.
    Ricordo Vitty e ricordo soprattutto che bevevamo tutti insieme dai beccucci di una fantastica grolla dell'amicizia che lei preparava aggiungendo al caffè grappa, genepy, cannella, qualche scorza d'arancia e altri ingredienti misteriosi.
    L'amore a 3480 metri: sicuramente memorabile anche quello!

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  3. Adesso ricordo: c’eri anche tu, su, nella capanna dei raggi cosmici, a 3460 m. Ti avevo parzialmente oscurato nella memoria perché io, a quei tempi, oscuravo parzialmente le mogli dei miei amici più stretti. Una mattana. E quindi avevo parzialmente oscurato la moglie di Nino, mio migliore amico di collegio universitario, di salite in montagna, di discussioni infinite e di altrettante mattane. Cioè tu. Ma adesso: vlan! Eccotela: Lu! Ma certo! E quindi c’eri anche tu quella sera del “ricevimento” di Vitty in onore dei fisici della capanna. Lo vedo non solo al tuo ricordo della ricetta del vino caldo che usciva dai beccucci delle “grolle”, ma ti intravedo, adesso, come seconda presenza femminile nel gruppo saldamente maschile in cui io vedevo soprattutto la prima, cioè quella dell’icona del Plateau. E quindi c’eri anche tu quando io cantavo Elvis Presley e l’aria da basso profondo “Sixteen tons” dei Platters. E quindi eri anche tu in pensiero per Nino e il suo amico presi nella tormenta sul Breithorn, e il giorno dopo eri anche tu presente quando nella capanna è entrato il mitico Sherpa Tenzing a coccolare un po’ il ferito agli occhi dagli UV/C che stupidamente era andato ad affrontare sul ghiacciaio senza occhiali. E quindi c’eri anche tu qualche sera dopo, quando nell’aria della notte si è manifestata quella tempesta elettrostatica (solar flares?) come non ne avevo mai viste… Quanto poi al record di altitudine, che ho sempre vissuto con una certa intima vanagloria, mi viene da pensare che, forse, non ero il solo 😂 … Ma poi mi dico che il piano sopra a quello del ristorante era, ed è, 20 metri più alto di quello dei vari tavolati all’interno della capanna,e che quindi, seppur meno glorioso e più rosicato di quanto avessi sempre creduto, il record rimaneva in mano mia, anche se per il rotto della cuffia. 😂🤗…

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  4. Adesso ricordo: c’eri anche tu, su, nella capanna dei raggi cosmici, a 3460 m. Ti avevo parzialmente oscurato nella memoria perché io, a quei tempi, oscuravo parzialmente le mogli dei miei amici più stretti. Una fissa. E quindi avevo parzialmente oscurato la moglie di Nino, mio migliore amico di collegio universitario, di salite in montagna, di discussioni infinite e di altrettante mattane. Cioè tu. Ma adesso: vlan! Eccotela: Lu! Ma certo! E quindi c’eri anche tu quella sera del “ricevimento” di Vitty in onore dei fisici della capanna. Lo vedo non solo al tuo ricordo della ricetta del vino caldo che usciva dai beccucci delle “grolle”, ma ti intravedo, adesso, come seconda presenza femminile nel gruppo saldamente maschile in cui io vedevo soprattutto la prima, cioè quella dell’icona del Plateau. E quindi c’eri anche tu quando io cantavo Elvis Presley e l’aria da basso profondo “Sixteen tons” dei Platters. E quindi eri anche tu in pensiero per Nino e il suo amico presi nella tormenta sul Breithorn, e il giorno dopo eri anche tu presente quando nella capanna è entrato il mitico Sherpa Tenzing a coccolare un po’ il ferito agli occhi dagli UV/C che stupidamente era andato ad affrontare sul ghiacciaio senza occhiali. E quindi c’eri anche tu qualche sera dopo, quando nell’aria della notte si è manifestata quella tempesta elettrostatica (solar flares?) come non ne avevo mai viste… Quanto poi al record di altitudine, che ho sempre vissuto con una certa intima vanagloria, mi viene da pensare che, forse, non ero il solo 😂 … Ma poi mi dico che il piano sopra a quello del ristorante era, ed è, 20 metri più alto di quello dei vari tavolati all’interno della capanna, e che quindi, seppur meno glorioso e più rosicato di quanto avessi sempre creduto, il record rimaneva in mano mia, anche se per il rotto della cuffia. 😂🤗…

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    1. Solo per dire che il commento precedente porta il nome di Silvano e non di Anonimo

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