HAWAII: HILTON WAIKOLOA (da “Xeno”)
Lo stacco climatico e visivo tra Hilo, la capitale dell’est dell’isola, e Kona, la capitale dell’ovest, appariva loro in tutta la sua drammaticità. Mentre Hilo era una città calda e piovosissima – e infatti i suoi dintorni erano coperti di foreste tropicali che scoppiavano di cascate, di orchidee e di animali arboricoli – la costa ovest, versi cui Mauro e Sybil si stavano dirigendo, era secca, chiara, ventosa e tutta coperta di colate di lava multicolori, più o meno antiche.
Come e dove potesse esistere in quelle lande lunari, un grande albergo come l’Hilton Waikoloa, era una domanda muta che molti prima di loro si erano sicuramente posti. La risposta era che la Big Island, dopo aver conosciuto il surf antropologico dei vari conquistadores, aveva da poche decine d’anni tastato il rullo compressore della mentalità e della tecnologia americana.
Ancora un piccolo dettaglio. In quel luogo non c’era spiaggia, ma solo una costa scabra e tagliente, dai colori nero e mattone, abbastanza ripugnante. E così, sullo slancio, fu costruita una spiaggia di sabbia bianca che si apriva su un enorme lagoon, chiuso sull’oceano da reti subacquee invisibili, volte a tener lontani i pescecani, tutto guizzante e saltellante di schiene di delfini.
Il grande albergo era nato alcuni anni prima nella mente di un architetto statunitense. “Dal punto di vista di un turista straniero” pensò “la costa più bella di tutta l’isola è la costa ovest: sole tutti i giorni dell’anno, assenza di umidità e aria limpida. Purtroppo non c’è una goccia d’acqua e non c’è un filo d’erba: un vero deserto di lava.”
Quell’uomo lungimirante e abituato a pensare americano, radunò allora un gruppetto di sponsor e illustrò il suo progetto. Dopo che gli uomini ebbero firmato alcune carte, senza alcun indugio giunsero sferragliando a Waikoloa due dozzine di giganteschi caterpillar che cominciarono a sfondare interi promontori di lava pietrificata.
Per alcuni mesi una colonna di camion, altrettanto giganteschi, trasferirono altrove i milioni di metri cubi di sterro che i caterpillar avevano strappato all’isola. La struttura del paesaggio, voluta dall’architetto, stava prendendo forma. Quando infine l’architetto fu soddisfatto, la colonia di caterpillar migrò verso est e si installò in una zona remota nei dintorni di Hilo. Lì cominciò il lavorio opposto.
Ora i caterpillar inghiottivano a ogni dentata diversi metri cubi di una splendida terra nera, che riversavano poi sugli stessi camion che si dirigevano verso l’arida costa occidentale. Non ci volle molto a coprire di un buon metro e mezzo di ottimo humus una sterminata distesa di antica lava. L’acqua arrivò subito dopo attraverso tubature che la smistavano, a pagamento, anche ad altri insediamenti nella stessa zona. Il più era fatto. Adesso bastava coprire le migliaia di ettari di terra fresca con un tappeto di erba finissima consegnata in rotoli sul posto, costruire le varie sezioni dell’albergo, le piscine, le cascate, i laghetti, i canali, i sistemi di trasporto interno e un prestigioso campo da golf con vista sull’oceano.
La hall dell’albergo era stupefacente. Enorme, luminosa e ricca ma senza sfarzo. Al centro, una grande scultura metallica rappresentante tre delfini nell’atto di spiccare un balzo, sovrapposti. Tutt’attorno, divani, angolini finemente decorati in vimini, vasi giapponesi da cui scendevano cascate di fiori. Silenzio, luce e serenità.
Sybil era emozionata – non era mai stata in un cinque stelle – e l’atmosfera della hall l’aveva incantata. Ricevuta la chiave della camera e una mappa dell’hotel, i due si avviarono alla ricerca della terza Ocean Tower, la loro.
Appena usciti dalla hall si trovarono subito immersi in un parco tropicale con un’infinità di viali, vialetti, vasi da fiori grandi come un uomo, fiori giganti e uccelli dappertutto. Non sapendo dove andare si rivolsero a un inserviente che stazionava quieto nei paraggi.
«Potete arrivarci con il tram svizzero o con il battello» disse l’inserviente giapponese. «Se è la prima volta che siete all’hotel, o se siete in viaggio di nozze, vi consiglio il battello» e spiegò come raggiungere i due mezzi di trasporto.
«Siamo in viaggio di nozze?» chiese Mauro a Sybil. Sybil rise, poi disse: «Prendiamo il battello».
All’interno del sito dell’hotel serpeggiava un quieto canale, con rive erbose soffocate di fiori. Sul canale vogavano silenziosamente dei comodi battelli di legno, luccicanti come piccoli yatch. Non c’era nessun biglietto da prendere e il nocchiero del battello era sempre una splendida ragazza americana. Portavano tutte un’uniforme da capitano di marina con berretto d’ordinanza e cravatta scura, ma la camicia bianca, attillata, era sempre tesa da un petto visibilmente compatto. Saliti a bordo, Mauro la guardò compiaciuto e Sybil gli disse, ridendo: «Guarda che siamo in viaggio di nozze!».
Il tram svizzero era in realtà una copia in scala ridotta dei pittoreschi trenini svizzeri che servono i paesini e le borgate d’alta montagna. Era molto bello, molto silenzioso e perfettamente climatizzato. Per fortuna l’architetto americano aveva avuto il buon gusto di non creare, ai bordi delle rotaie, una copia di paesaggio svizzero con mucche, ghiacciai e alpenhorn. Il trenino viaggiava invece, quietamente, tra siepi di fiori e verdi colline. Una specie di Svizzera tropicale, insomma: delicatissima.
Un po’ storditi dalla profusione di lusso, luci e colori, Mauro e Sybil aprirono infine la camera 14 nel corridoio Aloha al secondo piano della terza Ocean Tower. Le valigie erano nell’ingresso. Nella camera da letto, sul tavolino d’angolo, c’era un enorme cesto colmo di frutta esotiche con una lettera di benvenuto, personalizzata, del Manager. La camera aveva due letti, entrambi king size: due metri ciascuno. C’erano mille cose da vedere e da scoprire in quella stanza, ma fuori c’era un sole splendido e i due giovani, spogliatisi con una certa fretta, infilarono prestamente i loro costumini da bagno e partirono alla scoperta di quell’inattesa oasi nel deserto.
C’erano piscine dovunque: sempre a gruppi di tre, con canali di passaggio, sifoni spazzati da forti correnti, scivoli, bar in acqua con tavolini galleggianti. Una grande cascata scendeva spumeggiando dall’alto di uno sperone roccioso tappezzato di muschio e fiori. Sembrava di essere a Hilo, ma si era invece sulla desolata costa ovest.
Dopo diversi assaggi di diverse piscine e di diversi bar, galleggianti o no, Sybil disse di aver letto nel dépliant che c’era un museo da visitare, ingresso libero, all’aria aperta, e così si recarono al museo in battello – ce n’erano in servizio una buona dozzina – dove un’altra capitanessa, carina anche lei e anche lei con una camicina bianca tesa allo spasimo, fece finta di pilotare il battello, con grande perizia, tra le varie insidie del canale.
Il museo era stupefacente. Le opere d’arte erano esposte all’interno di un lungo corridoio le cui finestre, senza vetri, erano inondate di orchidee. Si trattava di manufatti etnici, provenienti da un glorioso passato giapponese e da una sorprendente arte rituale di Papuasia Nuova Guinea. Le opere erano accessibili, tutti potevano guardarle e toccarle. C’erano maschere polinesiane fatte di piume di uccelli colorati, talmente fini da sembrare velluto. C’erano antiche lance con manici di legno finemente cesellati, palandrane intessute di seta e oro, resti di reali guardaroba di signori della guerra giapponesi, uccelli imbalsamati, totem polinesiani, statue, tessuti, ninnoli, antico vasellame… tutto esposto, libero, vulnerabile, indifeso. Eppure il valore era difficilmente calcolabile. Alla fine del corridoio, uno scalone marmoreo portava a una piattaforma inferiore dove erano esposti tenebrosi calessi, carrozze, cocchi da guerra giapponesi, vecchi di mille anni.
Il parco era disseminato di statue di marmo di Carrara, rappresentanti i vari animali totem del calendario cinese: il drago, il maiale, il cavallo, il sorcio… Alla base delle statue era riportata la lista degli anni – passati e futuri – sotto l’influenza dei diversi animali. Una scritta tratteggiava il carattere delle persone nate sotto un dato simbolo. Mauro e Sybil si divertirono parecchio a leggere i tratti del loro proprio carattere: Mauro era nato sotto il Drago e ne era fierissimo; Sybil sotto quello del Sorcio e Mauro le disse che le andava proprio bene. La sorpresa più gradita fu di leggere, ai piedi della statua del Cavallo, che i nati sotto quel segno erano vanitosi, fatui, parlavano sovente, dicevano poco e nell’insieme erano poco affidabili. Peter Cod era infatti nato sotto quel segno.
Rimasero in silenzio, accarezzati dal vento, occhi persi sul mare, per un tempo interminabile, fino a quando il sole scomparve e l’aria divenne turchese.
«Riusciremo, adesso, a parlare con calma?» disse Mauro. Era coricato sul letto, supino, una macchia bianca, sfumata, là dove il sole delle Hawaii non aveva picchiato tutto il giorno. Sybil era inginocchiata vicino a lui, seduta sui suoi calcagni, un bikini bianco disegnato sulla pelle abbronzata.
«Sai come sarebbe una vera irlandese a quest’ora, eh, Doctor Gallagher?»
«No, dimmelo.»
«Qui, e qui, e qui, e qui…» indicò Mauro toccando amorevolmente le zone del corpo della ragazza rimaste bianche «avrebbe lo stesso colore. Ma qui, e qui, e là, e là, e qui e là» continuò, palpeggiando con diletto le morbide superfici restanti, lisce e ambrate che erano una meraviglia «ci sarebbero delle bolle piene d’acqua, e la pelle in mezzo sarebbe talmente infuocata che nessuno potrebbe toccarla.»
«Ma che cosa fai lì? Mi lasci qui da solo?» disse Mauro più ironico che interrogativo. Non ottenendo risposta le prese una mano e tirò leggermente. Non dovette tirare molto perché Sybil eseguì subito uno di quei movimenti leggeri e aggraziati di cui aveva un controllo perfetto. Si sedette dapprima a cavalcioni sul corpo di Mauro guardandolo fisso negli occhi. Inclinò infine il suo busto in avanti per baciarlo e, dopo averlo fatto, il suo giovane corpo slittò dolcemente verso il basso.
«Sybil!» disse Mauro con voce forte e calda alla ragazzina sorridente, ora seduta sopra di lui nella sua posizione preferita. «In questo preciso momento, io, Mauro Rasetti, nel pieno possesso delle mie capacità intellettuali, nonostante che una bambina testarda si ostini a tenere prigioniero dentro di sé un pezzettino del mio corpo che, in realtà, a quest’ora della notte, non si sa più a chi dei due appartenga, chiedo solennemente a Sybil Gallagher: vuoi spos…».
Sybil mise una mano sulla sua bocca: «Mauro Rasetti: non è da lì che devi cominciare. Quella deve essere la fine del tuo discorso».
«E va bene, effettivamente è una cosa lunga quella che voglio dirti. Sei pronta?» Sybil sorrise.
«S-A-F-O-D, compitò Mauro percorrendo lentamente con un dito un’immaginaria scritta sul petto di Sybil nascosta da un’immaginaria T-shirt. Fra due giorni saremo di ritorno in California, al SAFOD. Praticamente alla verticale della faglia di Sant’Andrea. Dopodiché dovremo fare un rapporto circostanziato a un sacco di persone curiose, tra cui il Vice. Ti sei preparata?»
«Ho mille cose da dire. Ho imparato una montagna di cose sulla circolazione atmosferica, sul jet stream, sulla fotochimica della stratosfera. Dovrò solo mettere un po’ di ordine nelle idee. Lo farò in aereo, sulla via del ritorno. E tu?»
«Non far finta di occuparti di me. Di me non si interessa nessuno. Sei tu nell’occhio del ciclone, per il momento. Quella storia dello xenobenzene è una storia molto grossa. Sei andata a vedere su Internet?» chiese, e Sybil annuì.
«Approfitta dell’onda che ti sta portando, Sybil, aggrappati dove puoi, abbandonati, chiudi gli occhi, lasciati trasportare… Avevi già paura della Faglia! Io lo so che non era per ridere, anche se adesso tu cercherai di minimizzare la cosa, ma l’angoscia ti veniva dal fondo del cuore. La vedo ancora, quell’ombra… Sei una ragazza meravigliosa, Sybil, sai? Anch’io sono stanco della Faglia e di tutte le sue diavolerie. Non che ne abbia paura, non scorre sangue celtico nelle mie vene. È l’America che mi ha stancato. Mi sembra che ci sia per me – per noi, se vuoi – una possibilità, uno spiraglio che si trova in questo momento in Italia, anzi, non in Italia, in Nepal… ma dipende dall’Italia. È una Piramide ai piedi dell’Everest, a più di cinquemila metri di altezza. Fanno delle ricerche, come dire? un po’ di tutto. Per le mie ricerche è il posto ideale: alla verticale della zona di subduzione della placca indiana sotto la placca eurasiatica, ma lontano dalla superficie di scorrimento delle placche. Il capo della Piramide non lo conosco. Forse so come prenderlo: gli offrirò un sogno, il mio sogno, Sybil, è l’unico che può cadere nella trappola di rimisurare l’Everest per l’ennesima volta. Io ho dei GPS fantastici dalla mia parte… Se riesco a farlo infiammare è mio. Con gli altri non sarà sicuramente facile: Arriva l’Americano! diranno, cercheranno in ogni modo di mettermi i bastoni in mezzo alle ruote, non mi vorranno tra di loro, è sicuro, ma io ho il mio jolly: la famosa Sybil Gallagher, la scopritrice dello xenobenzene, carina da farli impazzire. Potrai cavalcare il rivolo dell’onda anche dall’Italia, e tu, quando c’è da cavalcare, non ti tiri mai indietro…» rise, la guardò negli occhi e cominciò a sussultare imitando il trotto di un cavallino.
Lei sorrise e strinse le ginocchia per tenere a bada la cavalcatura. «Moriranno d’invidia, ti telefoneranno da tutto il mondo, ti manderanno centinaia di E-mail, pubblicherai un sacco di articoli. Ma tu non dovrai mai montarti la testa, e non dovrai nemmeno perderla, la testa, per nessuno, nemmeno per un irlandese rosso e riccioluto, e nemmeno per un italiano giovane e seduttore, uno “che vuole beccare le straniere”. All’inizio chiederei solo un anno sabbatico, non mi dimetterei dallo staff del SAFOD. Per te è diverso, tu non hai niente sotto i tuoi piedi, il tuo giovane corpo non ha radici… almeno, non sembra» e si mosse dentro di lei quasi a confermare i suoi dubbi. «Hai solo quelle due pubblicazioni su Nature con il tuo nome in prima posizione. Ma è un miracolo Sybil, fra sei mesi avrai diecimila citazioni sul Citation Index, ti prenderebbe chiunque – senza contare gli italiani che, come ben sai, lo farebbero solo per beccarti… » e le diede una lunga spinta verso l’alto e la guardò fisso e lei chiuse lentamente gli occhi «e poi avresti Mauro Rasetti dalla tua, quello delle famose Rasetti’s equations, e mentre tu re-inventerai una chimica infernale, lui re-inventerà una metrica universale, e mentre tu sarai all’origine di una nuova era nella chimica, lui troverà il modo di prevedere i terremoti. Ho trentacinque anni, sono vecchio ormai, e anche i vecchi, certe volte, a forza di esperienza…» e le mandò un segnale, e si mosse dentro di lei per vedere se tutto fosse a posto, se tutto fosse pronto, poi riprese: «Ho pensato a tutto Sybil, grandi rischi non ne corriamo, in ogni momento potremo sempre fare marcia indietro» e nel dirlo si ritrasse leggermente, sempre guardandola negli occhi. Quei doppi sensi gli piacevano da morire…
«Però, se vogliamo andare avanti, e vogliamo farlo insieme, ho bisogno del tuo accordo…» e spinse il suo corpo verso l’alto e sentì una forte spinta verso il basso.
«E dopo averti convinta che è quello che sta sotto a guidare la danza…» aveva preso le sue anche nelle mani e l’aveva sollevata leggermente per farle sentire che era lui a guidare la danza, «ho bisogno del tuo assenso. Scriverò una lettera al Presidente del CNR, scriverò anche per te, ma prima dimmi, Sybil: mi vuoi veramente bene? Sei pronta a seguirmi in questa avventura? Sei pronta a sposarmi? No, non adesso, lo faremo in Italia, in un paesino di montagna dove io ho una casa, e che vorrei tanto farti conoscere… Siamo pronti a sposarci? Dimmelo, mandami un segnale…»
E le mise una mano sulla bocca, e Sybil rispose nell’unico modo che le era concesso: con dei movimenti del bacino circolari, di bassa frequenza e di grande ampiezza, che producevano delle interferenze fantastiche con i movimenti sussultori di lui e tutto ciò sembrava proprio a una risposta, a un patto, a un progetto comune, a un balletto a due verso l’ignoto… verso l’abisso… verso il buio dell’abisso...
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